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Cosa vuol dire fare innovazione?

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Il nostro Alessandro Marini ha scritto un interessante articolo, che condividiamo con voi, sul tema dell’innovazione.

Il tema dell’innovazione e del cambiamento sta avendo un ruolo centrale per le imprese, non solo in termini di processi ma anche di apertura a nuove soluzioni per affrontare un mondo del lavoro sempre più complesso e difficile da gestire. Se difatti fino a qualche decennio fa si poteva pensare di sopravvivere nel mercato senza particolari cambiamenti, oggi diventa più difficile orientarsi in uno scenario sempre più globalizzato e sempre meno interpretabile da un punto di vista lineare. Parlare di innovazione è quindi indispensabile in ottica di crescita e sviluppo; i bravi manager devono saper guardare oltre gli anni che hanno a disposizione per gestire il capitale (economico, individuale e sociale) messo loro a disposizione. Un’azienda è una comunità che, oltre a produrre capitale, deve saper investire nella formazione e nel benessere dei componenti che ne fanno parte.

Cosa vuol dire Innovazione?

Credo che la prima distinzione utile da fare sia quella tra cambiamento ed innovazione. Il primo mette in evidenza il carattere inevitabile e quasi dogmatico della sopravvivenza. Charles Darwin diceva: “Non è la specie più forte o la più intelligente a sopravvivere, ma quella che si adatta meglio al cambiamento”. È abbastanza chiaro come il cambiamento non possa essere considerato un valore aggiunto ma una caratteristica dell’uomo e dell’essere vivente in generale, il quale deve sapersi adattare per poter sopravvivere. Il cambiamento non è una virtù ma una necessità. L’innovazione, al contrario, è un processo attivo che vede il cambiamento come orizzonte temporale a partire dalla creatività, intesa come capacità della mente di saper creare e produrre qualcosa di nuovo. Una ricerca condotta tra 1.500 CEOs di oltre 60 paesi ha evidenziato come la qualità maggiore di un manager non sia la disciplina, l’integrità, le competenze o l’intelligenza, bensì la creatività. L’innovazione è quindi strettamente collegata con la creatività, e la creatività ha bisogno di uno spazio favorevole per potersi esprimere. Le aziende stanno investendo nella creazione di spazi pensati per stimolare un pensiero creativo da parte dei propri dipendenti, proprio perché questo significa un maggiore sviluppo e maggiore fatturato. Ma questo non basta, gli spazi da soli non generano nulla in automatico.

Da una ricerca condotta su un campione di 1.000 medie aziende europee di Regno Unito, Germania, Francia, Italia e Spagna1 emerge come le medie aziende italiane fatichino ad innovare, con una
perdita di oltre 13 milioni di euro di fatturato. Gli intervistati non identificano come causa la mancanza di risorse (13% del campione) ma la formazione inadeguata (42%). Sempre più aziende investono nelle soft skills, oltre che nel comparto di Innovazione Tecnologica, per poter accelerare i processi di cambiamento e migliorare la comunicazione interna. Innovare non significa solo sviluppare sistemi tecnologici più efficienti, ma anche investire sulle competenze delle persone per creare un diffuso senso di benessere che possa permettere la creazione di qualcosa di nuovo. La grande intuizione di Elton Mayo fu che il lavoro di per sé è privo di significato se non in relazione con il contesto sociale. L’individuo in questo senso ottiene dal rapporto con gli altri la sua percezione di identità personale. La motivazione non è quindi intrinseca alle persone e nemmeno giustificata dalla retribuzione, che a volte può essere persino controproducente, ma proporzionale al sentirsi parte di un gruppo, piccolo o grande che sia. La creatività è un prodotto del gruppo e non la base da cui partire, e l’innovazione può per questo essere un segno positivo del gruppo.

Che tipo di innovazione serve?

Oltre a saper fare in maniera creativa bisogna anche apportare un reale beneficio e non un’innovazione fine a sé stessa. In poche parole bisogna non solo fare ma anche meglio. L’innovazione non deve essere soltanto un esercizio creativo ma deve consentire anche un miglioramento percepibile dei processi e dell’offerta. Se quello che offriamo è innovativo significa che siamo riusciti a pensarlo attraverso un processo creativo, gestito e costruito nella maniera più efficace possibile. In un mondo che vede le risorse disponibili presenti in maniera sempre minore, la risorsa sempre disponibile e rinnovabile che abbiamo a disposizione è quella creativa, afferma Navi Radjou. L’idea di fondo è che bisogna fare sempre di più i conti con un problema di limitatezza di risorse da una parte e di crescente diminuzione del potere d’acquisto dall’altra. La richiesta è sicuramente di prodotti all’avanguardia, innovativi e attenti alle esigenze della persona, con una marginalità però inferiore rispetto a prima. Se il lancio del nuovo IPhone X è stato in un qualche modo un buco nell’acqua è proprio perché, a fronte di un importante innovazione, non ha saputo tenere in considerazione un utilizzo ingente di risorse naturali e, ancor più, di un costo molto elevato. Anche la Apple, che sull’innovazione ha fatto il suo marchio di fabbrica, sta pensando di cambiare strategia per non perdere quote di mercato importanti, rappresentate da paesi emergenti, redditi medi e aspettative elevate. In India chiamano questo tipo di soluzioni Jugaad , una parola hindi che significa una soluzione improvvisata, una soluzione intelligente nata nelle avversità. Si tratta quindi di trasformare le avversità in opportunità, potenziali difficoltà in punti di forza. Innovazione significa ribaltare in maniera dialettica i due piani, cioè fare meglio con quello che si ha a disposizione. Il potere creativo si mostra in soluzioni di difficoltà, diremmo noi. È risaputo che una crisi può produrre benefici se sfruttati nella maniera più intelligente possibile. È forse il caso di rimettere in discussione il modello che fino ad ora abbiamo ritenuto vincente ed imparare a saper innovare nel rispetto delle risorse che abbiamo a disposizione e a favore di un maggior numero di persone.

“In Kenya, metà della popolazione utilizza M-PESA, una soluzione di pagamento mobile. Questo è molto necessario in Africa perché l’80% delle persone non ha un conto in banca ma circa l’82% ha un telefono cellulare. Ciò che è ancora più eccitante è che M-PESA è diventata la fonte di altre idee di business trasformative in altri settori. Uno dei fondatori di M-PESA ha creato M-KOPA, una soluzione solare domestica in una scatola: ha un pannello solare, tre lampadine a LED, una radio solare e un caricabatterie per telefoni cellulari. L’intero kit costa $ 200, che è costoso per la maggior parte dei keniani, ed è qui che i telefoni cellulari lo rendono più conveniente. Dopo aver effettuato un deposito iniziale di $ 30, si paga il saldo effettuando un micro-pagamento giornaliero di 50 centesimi con il proprio telefono cellulare. Una volta che hai effettuato 365 micro-pagamenti diventi il proprietario del prodotto quindi puoi configurarlo e iniziare a ricevere elettricità pulita gratuita. Ciò è estremamente utile in un paese come il Kenya, dove il 70% delle persone vive fuori dalla rete elettrica. M-KOPA fornisce energia a oltre 450.000 case in Kenya, Tanzania e Uganda. Con un’innovazione frugale, puoi prendere qualcosa che è abbondante – connettività mobile – per gestire ciò che è scarso: l’energia”

Persino le aziende della Silicon Valley cominciano a ragionare su un modello di sviluppo e implementazione meno invasivo e sensibile al tema della sharing-economy. Negli ultimi anni in Italia stiamo assistendo al boom della condivisione di automobili, biciclette, spazi, uffici etc etc etc. Questo sarà il modello prevalente nel futuro prossimo, che lo vogliamo o meno. Il tema centrale sarà sicuramente fare di più con meno. Conta quindi pensare il tema dell’innovazione in questa direzione, cioè come creare soluzioni a beneficio di tutti, utilizzando meno risorse disponibili. Le nuove generazioni già lo stanno sperimentando, per loro il possesso non è più un valore. Anche gli economisti ci dicono che i beni non sono più distinguibili tra pubblici e privati ma in beni posizionali e relazionali, legati cioè al loro utilizzo e lontani dalla logica bisogno-utilizzo.

Radjou nel suo testo individua tre principi se davvero si vuole essere innovatori:

  1. Privilegia la semplicità
    Non bisogna trovare un prodotto perfetto e complesso allo stesso tempo. La complessità non sempre va a pari passo con l’innovazione. Sono le cose semplici quelle che sono risultate più innovative nella storia e non sempre le idee più intelligenti sono quelle più applicabili. Semplificare in quest’epoca fa la differenza, rende più fruibili processi e prodotti.
  2. Non reinventare la ruota
    L’idea è di sfruttare quanto già c’è per innovare, senza inventare qualcosa da zero. In Francia Compte-Nickel ha rivoluzionato il settore bancario nel 2014 dando la possibilità di attivare un conto bancario direttamente in tabaccheria, con tanto di carta di debito e circuito mastercard per gli acquisti on-line. Ha soltanto unito un prodotto bancario con l’idea pret-a-porter di poter aprire un conto corrente sotto casa, con un piccolo ed impercettibile costo di manutenzione. Netflix e Spotify sono due piattaforme nate con l’idea di offrire un servizio già esistente ma più flessibile e facile da utilizzare. Non si inventa nulla, si cerca soltanto di mettere insieme per creare qualcosa di nuovo.
  3. Pensa e agisci in maniera orizzontale
    Questo è il più complesso dei punti e meriterà sicuramente un ulteriore approfondimento. In un quadro di crescente complessità e ampiezza geografica il modello tipico piramidale fatica a muoversi velocemente. Accanto a questo modello tradizionale stanno nascendo sempre più realtà snelle, orizzontali, che fanno della flessibilità un valore. Persino le grosse aziende hanno dovuto modificare il loro assetto per non rischiare di fare harakiri con la loro burocrazia interna. In questa direzione sta andando anche il grosso colosso farmaceutico Novartis, portando avanti per esempio un progetto pilota di mini impianti di produzione di farmaci, grossi come un container. Rispetto alle grosse fabbriche opera più velocemente e in maniera più precisa. Pensate agli impatti positivi che può avere sui vari territori, come differenziare le produzioni in caso di necessità e soprattutto agire in stati di emergenza in luoghi remoti per prevenire per esempio epidemie. Ancora non siamo in grado di capire come può essere applicata questa idea per garantire un accesso sempre maggiore di medicinali a basso costo e maggiore resa, ma la direzione da prendere è tracciata.

In conclusione

Albert Einstein scriveva: “non mi preoccupo mai del futuro, arriva sempre abbastanza presto”

Non siamo in grado ora di prevedere il futuro, anche solo di cinque anni. Diventa difficile in un quadro di costante cambiamento sapere da qua ai prossimi anni come cambieranno gli assetti economici e sociali, si legga a questo proposito il bellissimo saggio di Taleb “Il cigno nero”. Certamente dovremo fare i conti con una maggiore automazione e una richiesta sempre crescente di regolamentazione del mercato del lavoro. La digitalizzazione è solo all’inizio e non possiamo ora prospettare se davvero ci sarà una post-work society, ovvero una società in cui si dovranno reinventare i paradigmi lavorativi. Secondo una ricerca Findomestic-doxa avente come campione consumatori e imprese, quello che filtra come sensazione pensando al lavoro nel 2030 è “preoccupazione”. E’ proprio questo il sentimento che indicano i consumatori alla domanda su come sarà il lavoro nel 2030, mentre il 37% esprime fiducia e il 12% non manifesta interesse. Gli italiani si spaccano sul ruolo della tecnologia: per il 51% creerà più posti di lavoro di quanti ne distruggerà, per il 49% invece il saldo sarà negativo. Il dato interessante invece è relativo a quello che conta di più adesso nel mondo del lavoro, domanda a cui ¼ del campione ha risposto work-life balance e, ad ex aequo con il 24%, sicurezza del posto e riconoscimento delle competenze.
Nell’immediato quello che possiamo però fare è attrezzarci per renderci più competitivi sapendo che fare di più non significa necessariamente fare meglio (è vero anche il contrario) e che innovare significa rendere più semplici, accessibili, rispettosi e snelli i processi così come i servizi e i prodotti offerti. A noi spetta il compito di saper cogliere queste sfide.