I pirati del cervello
Estratto da un articolo di Lorraine de Foucher di Le Monde, pubblicato su “Internazionale” nr. 1239 del 19 gennaio 2018.
La nostra capacità di concentrazione è peggiorata negli ultimi vent’anni per colpa di applicazioni e siti Internet pensati per catturare l’attenzione.
Tra i ragazzi gli streak di Snapchat sono una specie di barometro dell’integrazione sociale. Sono la cosiddetta “generazione pesce rosso”? Sono adolescenti distratti e disorientati, incapaci di concentrare la loro attenzione su una conversazione, una lezione o su un libro?
Si potrebbe pensare che gli adolescenti di oggi usino Snapchat come le generazioni precedenti chiacchieravano per ore al telefono. Ma all’epoca non c’erano duecento ingegneri al lavoro dietro gli schermi, a studiare la psicologia dei più giovani e fare di tutto per renderli dipendenti dall’applicazione. Tristan Harris è un ex designer di Google, laureato all’Università di Stanford e specializzato in “interazione tra essere umano e computer”: ha cominciato a denunciare quelli che chiama “i pirati dell’attenzione”.
Secondo Harris bisogna rovesciare l’onere della prova: e se la colpa non fosse degli adolescenti distratti, ma delle aziende come Apple, Facebook e Google, che fanno di tutto per rubare il tempo libero al nostro cervello? «Dal punto di vista aziendale ha perfettamente senso: è come se una compagnia elettrica facesse di tutto per spingere i suoi clienti a lasciare accese le luci il più possibile».
Qualche dato
Il risultato è che le statistiche sul livello di attenzione sono sempre più sconfortanti. Negli ultimi 17 anni abbiamo perso quattro secondi di capacità di concentrazione: nel 2000 eravamo capaci di prestare dodici secondi di attenzione continuativa ad un determinato compito. Oggi, come rivela uno studio realizzato dalla Microsoft, la media è di otto secondi, peggio di un pesce rosso, che è capace di concentrarsi per nove secondi. Secondo un’altra ricerca, veniamo interrotti circa ogni 12 minuti perché riceviamo in media quaranta messaggi al giorno e siamo incapaci di rimandare la lettura. Dopo ogni invasione del nostro spazio mentale, ci mettiamo 23 minuti a riconcentrarci su quello che stavamo facendo, come dimostrano le ricerche di Gloria Mark, ricercatrice dell’Università di California a Irvine.
«Lo scroll, l’autoplay e le finte notifiche sono tutti espedienti creati da Facebook per trattenerti più a lungo e renderti dipendente» spiega Ramsay Brown, ingegnere statunitense che studia la dipendenza da applicazioni. Stéphane Xiberras, direttore creativo di un’agenza pubblicitaria dice «sappiamo calcolare le probabilità con cui una casalinga comprerà un prodotto che ha visto su una rivista solo dal livello di dilatazione delle sue pupille. Ma oggi ci sentiamo completamente superati. Sullo schermo di un telefono tutte le informazioni hanno la stessa importanza: la notizia di un attentato, i messaggi di un’amica, una foto su Instagram».
Tutto sembra portare nella stessa direzione: l’attenzione si è trasformata in una risorsa naturale preziosa, al pari dell’acqua o del petrolio. Una risorsa inquinata, che diventa scarsa e quindi acquista valore. L’idea di economia dell’attenzione è comparsa intorno al 1995 con lo sviluppo di Internet, ora si inizia a parlare di “ecologia dell’attenzione”.
“Gli stati dovrebbero costringere le aziende tecnologiche a preoccuparsi dell’ecologia dell’attenzione approvando delle leggi, proprio come hanno fatto con il protocollo di Kyoto o l’accordo di Parigi per i cambiamenti climatici” afferma Harris. Secondo lui bisognerebbe classificare la richiesta d’attenzione di un sito o di un’applicazione, così come si classifica l’impatto ambientale delle auto o dei frigoriferi.
I dati fanno riflettere… concordate?