Welfare aziendale, quando il tempo è denaro
Un articolo del nostro consulente Alessandro Marini analizza il fenomeno welfare.
Il concetto di welfare non è certamente nuovo nel panorama lavorativo. Affonda le sue radici dalle società di mutuo soccorso e conosce una spinta nel secondo dopoguerra, grazie anche alle storiche esperienze del villaggio di Larderello in Toscana e in quella rivoluzionaria di Olivetti ad Ivrea.
Obiettivo comune di questa costellazione di buone pratiche nel corso dell’industrializzazione italiana fu quello di fornire servizi e assistenza ai lavoratori al fine di aumentare la produttività (intesa non solo come quantità ma soprattutto come qualità del lavoro) e diminuire la conflittualità all’interno degli stabilimenti produttivi. Con lo sviluppo difatti dello stato sociale si assiste ad un tacito impegno, nel nostro sistema produttivo di piccole e medie imprese, tra stato e aziende per favorire lo sviluppo e il benessere dei lavoratori. Questo ha sicuramente generato nel corso dei decenni successivi una spinta maggiore al consumo e un armonizzazione della crescita del paese. È con l’avvento degli anni ’80, con il cambiamento della realtà lavorativa e la crescita del settore terziario, che anche il welfare aziendale cambia radicalmente iniziando ad inserire programmi previdenziali e fringe benefits per i lavoratori, specialmente per i ruoli dirigenziali all’interno di grandi multinazionali.
A che punto siamo invece oggi con il welfare aziendale? La crisi dello stato sociale tradizionale e l’impossibilità delle imprese di agire sulla leva salariale monetaria sembrano determinare un ulteriore cambiamento della percezione del welfare aziendale nella vita dei dipendenti. Spiego meglio: se i dati ci dicono che negli ultimi 10 anni sono cresciute le disuguaglianze retributive, i salari medi di operai ed impiegati è sceso fino al 2,7% e i posti di lavoro sono diminuiti dello 0,3%, ciò che ne consegue è un’importanza sempre maggiore che i dipendenti ripongono nei servizi di welfare che le aziende offrono. A fronte quindi di una disillusione nel vedere i propri stipendi aumentati nel corso dei prossimi anni, i dipendenti preferiscono investire sul benessere, loro e dei familiari, e sulla qualità della vita piuttosto che sugli scatti retributivi. Uno dei dati più interessanti del recente rapporto annuale Censis-Eudaimon rivela proprio che quasi il 70% dei dipendenti preferirebbe più welfare sul lavoro piuttosto che più soldi nella busta paga. È un dato che deve aprire una seria riflessione all’interno delle aziende.
Recentemente la storica azienda emiliana “Lamborghini” ha chiesto ai suoi dipendenti, attraverso un referendum interno, cosa preferissero tra l’introduzione di 5 giorni di permessi annuali (40 ore totali) e più soldi in busta paga. Il risultato è stato inappellabile, con una vittoria netta del 95%, un plebiscito insomma. I dipendenti hanno scelto di usufruire di più tempo libero piuttosto che avere più denaro. È una scelta che non ha riguardato solo Lamborghini ma ha visto anche altre aziende andare in questa direzione (Ducati e Bonfiglioli, solo per citare due esempi bolognesi). I dipendenti preferiscono quindi sempre più avere più tempo a disposizione per dedicarlo alla famiglia, a loro stessi oppure al proprio benessere. È una considerazione che non solo orienta la vita delle persone, ma anche la loro scelta professionale. Dal primo rapporto Censis-Eudaimon dello scorso anno difatti si evince come i fattori che guidano la scelta verso un lavoro piuttosto che un altro sono, in ordine: il work-life balance (inteso come flessibilità oraria, possibilità di part time, congedi parentali e banca ore), il clima lavorativo piacevole e, solo come terzo elemento, la retribuzione e i benefit.
La recente diffusione dello smart working cerca proprio di andare incontro a questa esigenza, interrogando le grandi aziende su come poter essere “appealing” nel mondo del lavoro. Come professionisti sentiamo molto spesso le aziende interrogarsi su come attrarre, e soprattutto tenere, i loro talenti. Diventa sempre più difficile convincere le persone a restare attraverso incentivi economici e prospettive di carriera. Il vero cambiamento che sta avvenendo nel mondo lavorativo è proprio questo: le leve motivazionali nel corso del tempo sono cambiate. Ciò che motiva le persone non è più (solo) il denaro (o la sua prospettiva futura), ma il benessere e la possibilità di riuscire a coniugare il lavoro con la propria vita personale. Rispetto al passato si lavora di più e con maggiore intensità, basti pensare che sempre un numero crescente di dipendenti afferma di provare sintomi legati allo stress (insonnia, mal di testa, dolori allo stomaco, attacchi d’ansia etc etc etc) e di vivere conflitti in famiglia a causa del lavoro. La possibilità di avere un welfare aziendale che guardi e preservi questi aspetti è quindi una potente calamita nel processo di scelta.
Una ricerca promossa da Jointly sul rapporto tra giovani e mondo del lavoro ha mostrato come l’interesse maggiore nella fascia 18-35 anni non sia quello di maggiori rimborsi in busta paga ma una ricerca di benessere e work-life balance. Oltre a questo emerge anche come i giovani siano meno individualisti e più aperti alla condivisione; attribuiscono cioè più importanza alle iniziative con forte dimensione sociale e capaci di creare valori, a scapito di quelle che portano ad un vantaggio economico individuale. In questo senso la leva motivazionale fondamentale diventa la conoscenza e la soddisfazione per le iniziative di welfare di cui si è fatto uso o che possono essere utilizzate.
Il lavoro ha assunto oggi un nuovo significato, non più visto come unico vettore di realizzazione personale, ma inserito in un più ampio orizzonte di vita, dove la vita privata e le aspirazioni individuali devono trovare uno spazio importante, difficilmente barattabili con il denaro. A fronte di un futuro sempre più incerto e meno ancorato a traiettorie stabilite, così come a un mondo del lavoro sempre più difficile e frammentato, i giovani sembrano aprirsi ad uno scenario che non contempla più il lavoro come perno centrale della propria vita. L’identificazione e l’engagement con l’azienda avviene in misura maggiore invece quando questa è in grado di offrire un maggior grado di benessere e libertà di movimento. Il welfare aziendale quindi, se utilizzato in maniera corretta, può essere un fondamentale strumento che consente di creare un legame profondo tra i dipendenti (soprattutto quelli giovani) e le aziende.
Alessandro Marini
Per approfondire:
Rapporto Censis Eudaimon sul welfare aziendale
Da “Il Sole 24 Ore”: “Il lavoro ai tempi dei millenials”