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Nuovi modelli organizzativi: il modello rivoluzionario delle piante

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In un libro di recente pubblicazione, “Plant Revolution”, Stefano Mancuso, scienziato e neurobiologo, sfata il luogo comune secondo cui le piante sarebbero degli esseri viventi semplici e senza una particolare intelligenza. In realtà, a differenza di quanto si possa pensare, le piante sono l’esempio di intelligenza adattiva più brillante, se non il migliore esempio a cui ispirarsi sulla Terra per trovare delle soluzioni per la maggior parte dei problemi che affliggono l’umanità come l’inquinamento, la penuria di risorse, i rischi che derivano dai fenomeni atmosferici e la possibilità si sopravvivere a un attacco: “Le piante consumano pochissima energia, hanno un’architettura modulare, un’intelligenza distribuita e nessun centro di comando”.

È un modello che ben si può adattare all’idea di organizzazione aperta di Jim WhiteHurst, CEO di Red Hat, inserita da Forbes come una delle aziende più innovative nonché uno dei migliori luoghi al mondo in cui lavorare. Secondo questo modello difatti le organizzazioni sono più simili a comunità che ad apparati gerarchici centralizzati e lenti nel cambiamento. Attraverso la sua esperienza, e soprattutto la storia di Red Hat, azienda leader nel campo dei software open source, l’autore ci accompagna in una nuova idea di organizzazione che, per stare al passo con i tempi, deve necessariamente ridefinire la propria struttura, deve alleggerirsi per non correre il rischio di restare indietro. Doti come la velocità e l’agilità diventano fondamentali eppure le aziende tradizionali faticano a stare al passo con i cambiamenti proprio perché strutturalmente sono pensate per avere un equilibrio e la pianificazione centralizzata richiede troppo tempo e assorbe troppe risorse: “oggi quasi tutte le organizzazioni sprecano molte più capacità intellettuali di quelle che utilizzano”. Questo è il postulato fondamentale del libro “L’organizzazione aperta” in cui si cerca di formulare un nuovo paradigma di management che vada oltre la semplice gestione delle risorse con uno stile top-down. L’esempio da seguire è proprio quello delle piante, che riescono a sopravvivere nei contesti più disparati, dal deserto alle foreste pluviali, mettendo in atto per ogni singolo contesto un meccanismo diverso in grado di trasformare le criticità in punti di forza. Il fico d’india, per esempio, non ha foglie proprio per evitare la fuoriuscita di vapore acqueo e assorbe così l’acqua dall’atmosfera anziché dalle radici per la presenza di terreno arido. Gli abeti hanno invece sviluppato un meccanismo che gli permette di sopravvivere al gelo grazie alla loro capacità di limitare la perdita d’acqua.

Come le piante, così le organizzazioni devono imparare a sopravvivere in differenti contesti. E questo non è possibile con un modello di management fortemente centralizzato che tende con il tempo a deresponsabilizzare le persone e tenerle legate tra di loro attraverso vincoli economici. L’organizzazione centrale è debole, l’organizzazione diffusa è estremamente adattiva e funzionale per prendere decisioni giuste, non rapide. I sistemi centrali sono delicati, pensiamo per esempio alle grosse civiltà umane distrutte in poco tempo, come gli egizi, i greci, i romani, gli atzechi etc etc. Le piante invece riescono a coniugare flessibilità e solidità. La loro architettura è cooperativa, distribuita, senza centri di comando e capace di resistere a stimoli che la mettono a rischio. Le organizzazioni devono ispirarsi a questo modello per essere adattive, non devono avere centri di comando pesanti e strutturati ma autonomie diffuse che riscano a rispondere in maniera più efficace ai cambiamenti. Novartis, per esempio, sta portando avanti un progetto pilota di mini impianti di produzione, grossi come container, di farmaci. Rispetto alle grosse fabbriche opera più velocemente e in maniera più precisa nei differenti territori in base alle necessità.

Tutto nella pianta è a forma di rete, le piante a differenza degli animali non hanno organi singoli o doppi a cui sono demandate le principali funzioni dell’organismo perché gli organi sono punti deboli. Se la pianta avesse un cervello, un cuore, un rene, un polmone etc. etc. sarebbe destinata a morire a causa anche di un piccolo predatore. Decentrare per la pianta è la parola d’ordine: le piante respirano con tutto il corpo, vedono con tutto il corpo, sentono e calcolano con tutto il corpo. Distribuire ogni singola funzione è l’unico modo che hanno per sopravvivere. La loro organizzazione è il segno stesso della loro modernità: hanno un’architettura modulare, cooperativa, distribuita e senza centri di comando, in grado di sopportare alla perfezione predazioni catastrofiche e ripetute.

“Ogni organizzazione la cui gerarchia affida a pochi il compito di decidere per molti è inesorabilmente destinata a fallire, specie in un mondo che richiede soprattutto soluzioni differenti e innovative. Grazia a Internet i casi di organizzazioni non gerarchiche e distribuite, simili a strutture vegetali, si moltiplicano e producono ottimi risultati. Sembra un paradosso ma nel prossimo futuro dovremo per forza ispirarci alle piante per ricominciare a muoverci” (Plant Revolution, p. 177)

Il modello di organizzazione aperta presuppone che il coinvolgimento e la passione siano i presupposti su cui poter creare condivisione e meritocrazia, e non invece come avviene con le organizzazioni tradizionali in cui il comando centrale e la pianificazione, portano in ultima istanza, promozioni e ricompense.

Quali considerazioni possiamo trarre da queste analisi?

  1. In un mondo di rapidi cambiamenti non si può restare ancorati a vecchi modelli, altrimenti rischiamo di non vedere quel cigno nero di cui parla Nassim Taleb nel suo famoso saggio, andando avanti incuranti dei pericoli che questo comporta. È utile aprire una riflessione su alternative a modelli strutturati e tradizionali di organizzazioni.
  2. Sta cambiando il modo di vedere e percepire il lavoro, specialmente tra i più giovani. Molte volte l’incomprensione che si crea all’interno delle organizzazioni è di tipo generazionale. Dalla mia esperienza quello che vedo è che i più “anziani” tendono a percepire e giudicare i più “giovani” come demotivati quando invece alla base c’è un differente modo di essere ingaggiati sul lavoro: le persone oggi vogliono essere più coinvolte in quello che fanno e cercano con maggiore forza di trovare la giusta espressione di sé nelle attività che svolgono. Quello che avveniva una volta, cioè “ti dico quello che devi fare e tu lo fai”, oggi non ha più lo stesso valore. Che si voglia o meno i giovani hanno bisogno di capire il perché di quello che fanno per avere la giusta motivazione e quindi di conseguenza una giusta performance. Bisogna investire sulla passione e sul coinvolgimento e non ribadire i vincoli economici e gerarchici che tengono legati.
  3. Mai come oggi saper comunicare diventa fondamentale per avere un team e un’organizzazione sana. “La mancanza di un dialogo sincero è il più grande limite che le aziende impongono a sé stesse”, al contrario ènecessario incentivare la capacità di fare domande, di ricevere feedback, di stimolare il confronto e l’inclusione.

 

Alessandro Marini

Febbraio 2019